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I presupposti della nuova azione di rivalsa ex art. 9, Legge Bianco Gelli

Tra le novità più importanti introdotte dalla legge Bianco-Gelli, n. 24/2017, c’è sicuramente l’art. 9 "Azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa" che, per la prima volta, prevede dei limiti all’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’operatore sanitario, positivizzando anche alcuni dei principi elaborati finora soltanto a livello giurisprudenziale.


Prima di addentarci nell’esame delle limitazioni, è opportuno chiarire che, a differenza di altre norme contenute nella Legge Bianco Gelli, l’art. 9 appare essere immediatamente applicabile.

La norma non prevede infatti rinvii a norme attuative e pertanto la sua entrata in vigore è stata immediata.


Oltre a ciò, nell’analisi della norma, si deve tenere presente che l’art. 9 rispecchia la finalità generale che il legislatore si è posto nell’emanare la legge n. 24/2017: delimitare la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria.


Per tale ragione, il legislatore ha quindi contemplato una serie di presupposti per limitare l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti del medico.


Vediamo di seguito quali sono.


1. DOLO O COLPA GRAVE


Il primo comma dell’art. 9 impone un limite legato alla condotta posta in essere dall’operatore sanitario, circoscrivendo l'azione di rivalsa ai soli casi di dolo o colpa grave.


I casi di colpa lieve restano quindi esclusi.


Si evidenzia che il legislatore ha così formulato la norma “ L'azione di rivalsa nei confronti dell'esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave”, rimettendo la scelta di promuovere o meno l’azione alla discrezionalità della struttura sanitaria o al Pubblico ministero avanti alla Corte dei Conti.


Nel giudizio contro l’operatore sanitario, il Giudice dovrà quindi verificare in primo luogo lo scostamento della condotta del medico da quella dell’agente modello, riferendosi alle linee guida e alle buone pratiche clinico sanitarie, e inoltre valutare l’elemento psicologico in capo al sanitario.


2. LIMITE TEMPORALE


Il secondo comma dell’art. 9 così recita: “Se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno, l’azione di rivalsa nei confronti di quest’ultimo può essere esercitata soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto pagamento».


Tale comma prevede quindi due condizioni di procedibilità per l’esercizio dell’azione di rivalsa quando il medico sia rimasto estraneo al giudizio o alla procedura stragiudiziale di risarcimento del danno: 1) l’azione può essere esperita solo dopo l’avvenuto pagamento del risarcimento; 2) l’azione può essere esercitata solo entro un anno da tale pagamento.


La norma non specifica tuttavia se il titolo giudiziale debba essere definitivo o meno per la procedibilità dell’azione di rivalsa.

Nel silenzio del legislatore, si deve pertanto presumere non sia necessario che il titolo giudiziale passi in giudicato, essendo sufficiente anche un titolo provvisorio (es. sentenza di primo grado soggetta ad appello).


Per quanto riguarda il caso in cui il medico sia stato invece parte del giudizio o della procedura stragiudiziale, è evidente, a contrario, che l’azione non sarà sottoposta ai predetti limiti e sarà immediatamente esperibile, anche contestualmente al giudizio promosso dal danneggiato, non essendo inoltre sottoposta al termine di decadenza.


3. LIMITI ALL’UTILIZZO DEL TITOLO GIUDIZIALE E STRAGIUDIZIALE


Il terzo comma dell’art. 9 pone un ulteriore limitazione all’utilizzo del titolo giudiziale quando l’operatore sanitario non sia stato parte del giudizio: la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o sociosanitaria o contro l'impresa di assicurazione non fa stato nel giudizio di rivalsa se l'esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio.

Si conferma quindi il principio generale di cui all’art. 2909 c.c..


Analogamente, il quarto comma prevede che nemmeno la transazione sia opponibile all’esercente la professione sanitaria nel giudizio di rivalsa se questi non vi ha partecipato.


4. LIMITI AL QUANTUM DELLA RIVALSA


I successivi quinto e sesto comma pongono diversi problemi di interpretazione con riferimento a quali siano le azioni oggi esperibili da parte delle strutture sanitarie pubbliche. Li abbiamo già affrontati in un altro contributo, a cui vi rinviamo.


In ogni caso, tali commi pongono limiti all’ammontare a cui l’operatore sanitario destinatario dell’azione di rivalsa può essere condannato.


Il quinto comma disciplina l’azione di responsabilità amministrativa proposta dal Pubblico Ministero avanti alla Corte dei conti nei confronti di un operatore di una struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica e individua come tetto massimo il triplo del valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo.


Il sesto comma contempla invece l’azione di responsabilità esperita dalla struttura privata e prevede un tetto massimo soltanto in caso di colpa grave e quando l’azione sia esperita nei confronti del dipendente.


In tali ipotesi, la condanna a seguito della rivalsa non può superare una somma pari al triplo del valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo.


Non ricorre invece alcun tetto massimo:


· nel caso del dolo;

· quando l’azione sia rivolta contro un medico che operi al di fuori delle strutture sanitarie o sociosanitarie individuate nel primo comma dell’art. 10, o che presti la sua opera all’interno delle predette strutture in regime libero-professionale, oppure abbia un rapporto contrattuale diretto con il paziente ai sensi dell’art. 7, comma 3, della legge Gelli.


Da entrambi i commi emerge che anche le imprese di assicurazione potranno esperire l’azione di rivalsa quando siano condannate a risarcire la quota che spetterebbe al sanitario e ciò in virtù del richiamo all’art. 1916, primo comma c.c..



5. LIMITI ALL’UTILIZZO DELLE PROVE


Da ultimo, il settimo comma prevede un limite alla utilizzabilità delle prove proveniente dal giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell'impresa di assicurazione.

Nel giudizio di rivalsa, il Giudice può desumerne soltanto argomenti di prova, ma solo se l'esercente la professione sanitaria ne sia stato parte.


OSSERVAZIONI


Per comprendere a fondo il tema della rivalsa nei confronti dell’operatore sanitario e la sua portata, l’art. 9 deve essere letto nel contesto della medesima legge a cui appartiene.


Ci si riferisce, in particolare, all’art. 7, prima comma, della medesima legge, che prevede che: “la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché' non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose.”


Il terzo comma dell’art. 7 prevede inoltre che: “ L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente.”


Il legislatore ha quindi previsto un’ipotesi di responsabilità solidale della struttura e del professionista sanitario nei confronti del paziente.


Nei confronti del paziente, la struttura risponde sempre dell’operato dei proprio sanitari, potendo poi eventualmente esperire l’azione di rivalsa verso l’operatore sanitario per la sua quota di responsabilità.


Ma come si ripartisce internamente la responsabilità tra struttura e medico?

La legge Bianco Gelli non lo dice e l’art. 9, in particolare, non pone alcun limite espresso con riferimento al riparto interno di responsabilità.


La giurisprudenza non ha peraltro ancora avuto modo di confrontarsi con l’art. 9 della legge Bianco Gelli non essendo applicabile ratione temporis ai casi finora affrontati.


Sul tema sussiste peraltro un contrasto giurisprudenziale.


Parte della giurisprudenza sostiene infatti che spetterebbe alla struttura sanitaria provare che la causazione del danno sia ascrivibile, in via esclusiva, alla imperizia dell'operatore medico.


Sul punto si legga la sentenza della Cassazione, civ., sez. VI, ord. 27 settembre 2019 n. 24167, che ha infatti così statuito: “Laddove la struttura sanitaria, correttamente evocata in giudizio dal paziente che, instaurando un rapporto contrattuale, si è sottoposto ad un intervento chirurgico all'interno della struttura stessa, sostenga che l'esclusiva responsabilità dell'accaduto non è imputabile a sue mancanze tecnico-organizzative ma esclusivamente alla imperizia del chirurgo che ha eseguito l'operazione, agendo in garanzia impropria e chiedendo di essere tenuta indenne di quanto eventualmente fosse condannata a pagare nei confronti della danneggiata, ed in regresso nei confronti del chirurgo, affinchè, nei rapporti interni si accerti l'esclusiva responsabilità di questi nella causazione del danno, è sul soggetto che agisce in regresso a fronte di una responsabilità solidale che grava l'onere di provare l'esclusiva responsabilità dell'altro soggetto. Non rientra invece nell'onere probatorio del chiamato l'onere di individuare precise cause di responsabilità della clinica in virtù delle quali l'azione di regresso non potesse essere, in tutto o in parte, accolta.”


In base a tale pronuncia, spetta quindi alla struttura sanitaria provare il diverso riparto interno di responsabilità, potendo la stessa anche dimostrare la responsabilità esclusiva del medico.


A distanza di soli due mesi, con una delle sentenze di San Martino 2019 della sezione III della Cassazione, la Suprema Corte ha però affermato che, anche nei casi di responsabilità esclusiva del medico, la struttura debba rispondere anch’essa sempre e comunque.


Con la sentenza n. 28987 dell’11.11.2019, la Cassazione ha infatti affermato che: “In tema di danni da "malpractice" medica nel regime anteriore alla l. n. 24 del 2017, nell'ipotesi di colpa esclusiva del medico la responsabilità deve essere paritariamente ripartita tra struttura e sanitario, nei conseguenti rapporti tra gli stessi, eccetto che negli eccezionali casi d'inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza dal programma condiviso di tutela della salute cui la struttura risulti essersi obbligata”.


Con tale pronuncia, la Suprema Corte ritiene quindi che il regresso per l'intera somma nei confronti del medico possa avvenire solo quando il medico ponga in essere una condotta del tutto esorbitante e infatti la Suprema Corte fa il seguente esempio “si pensi al sanitario che esegua senza plausibile ragione un intervento di cardiochirurgia fuori della sala operatoria dell'ospedale”.


Secondo tale orientamento, per superare la presunzione di divisione paritaria dell'obbligazione solidale tra struttura e singolo sanitario non sarebbe, quindi, sufficiente per la struttura provare che l'inadempimento sia ascrivibile alla sola condotta del medico, dovendo la struttura anche provare che la condotta del medico sia assolutamente esorbitante rispetto al “programma” della struttura.



In merito a tale principio, occorre però osservare che da un lato rispecchia la finalità della Legge Bianco Gelli di tutelare gli operatori sanitari, eliminando il rischio di una azione di rivalsa senza limiti da parte della struttura nei confronti del medico.


Dall’altro lato però è un principio che non trova espresso riscontro nell’art. 9 della Legge Bianco Gelli che, come evidenziato, non pone alcun tipo di limitazione con riferimento al riparto interno delle quote di responsabilità.


avv. Ilaria Oberto Tarena

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